C’è una qualche differenza in queste due declinazioni della domanda.
Lavoro nell’accezione latina è fatica, impegno, pena anche. Liberarsi da un lavoro che incomba non come una scelta ma come un dovere morale, dal carattere e dai tratti così cupi e oppressivi, è certamente un’obiettivo di cittadinanza contemporanea.
Una ribellione che andrebbe praticata anche per annullarne gli effetti di ritorno sulla persona, che in un con testo di lavoro come questo si è fatta più cinica, individualista, perché impaurita; monade.
In greco la parola lavoro ha una radice meno diretta ma più luminosa, che rimanda all’energia, alla creazione.
Un Lavoro come questo, viceversa, va liberato, promosso, sostenuto come leva attiva di cittadinanza. Una idea di Lavoro che che intercetta la pulsione generativa che è in tutti gli esseri che esistono – e ancor di più in quel particolare essere che sa di esistere – il quale può anche usare questa energia per produrre mondo attorno a sé, ma non solo per sé. In questa declinazione, infatti, la persona non è più un Uno che cerca di r-esistere contro, o a dispetto dell’Altro.
Ma un Due, e suo multiplo all’infinito, che lavora perché l’alterità, che egli stesso è, trovi cittadinanza e legittimità ad esistere e stare bene.